venerdì 14 febbraio 2014

Onore a te Pirata: hai scalato i monti con il Sole, la Pioggia e la Neve. Da 10 anni che il ciclismo si è spento!

Mentre una nuova stagione è ormai alle porte, il mondo del ciclismo - e non solo per la dimensione del personaggio - ricorda oggi Marco Pantani, nel decennale della sua morte, in un anonimo residence di Rimini. Quello che la sera del 14 febbraio 2004 usciva dalla vita, stroncato da un overdose di cocaina, era un uomo ormai solo e disperato. 
Del campione che aveva fatto sognare tutti con le sue imprese solitarie sulle vette da leggenda del ciclismo non c’era più traccia, scomparso da quel mattino di giugno a Madonna di Campiglio nel Giro del 1999. Vi era arrivato il giorno prima trionfante in maglia rosa, tra due ali di folla entusiasta. Se ne andava distrutto, espulso dalla corsa, scortato da due carabinieri come fosse un delinquente: un ematocrito fuori norma, che faceva sospettare il ricorso all’Epo, era stato riscontrato in un controllo a sorpresa. 

Il Pirata pregustava il Mortirolo, come apoteosi di un Giro stradominato: i tifosi l’attendevano ancora una volta al lancio per terra della sua bandana come segnale di un altro irresistibile attacco che non ci sarà. Cominciava invece per lui un viaggio nelle tenebre,  in un tunnel senza uscita. Lui che l’anno prima aveva vinto Giro e Tour, portato a esempio del campione pulito in un ambiente già inquinato dall’Epo, era diventato il primo dei drogati. 

Una macchia per lui insopportabile. Scritte ostili, spalle voltate, sempre più folto il partito del discredito. Non era Pantani il primo corridore a essere fermato per l’ematocrito troppo alto. Né sarebbe stato l’ultimo. Ma il modo con cui Pantani da quel giorno venne trattato, da campione a quasi mostro, fu una squallida esibizione di perbenismo sulla pelle di un atleta tanto forte sui pedali appena la strada si impennava, quanto fragile dentro, incapace di reagire a una realtà che all’improvviso gli si era ribaltata contro, a un mondo che l’aveva idolatrato e che adesso non gli dava più credito nemmeno quando a fatica Pantani tentò di tornare Pantani, con due acuti al Tour del 2000 fino all’ultimo disperato tentativo di risorgere sull’ascesa verso la cascata del Toce nel Giro del 2003. 

Poi il buio di una vita spesa ad autodistruggersi il più in fretta possibile. Contro di lui fu un linciaggio sistematico che ancora oggi fa male come denuncia, in una lettera scritta a mano, indirizzata al figlio e pubblicata in questi giorni sul sito della Fondazione (www.pantani.it), Paolo Pantani, il padre di Marco. “Sette procure, giudici, giornali, televisioni, enti sportivi compreso la federazione ciclistica: non riesco a darmi pace, non potrò mai rassegnarmi e accettare che un uomo buono, giusto, onesto, sensibile e generoso come te abbia dovuto soffrire tutto quell’inferno”. Un dolore straziante di un padre che attende che sia almeno restituita al figlio “la sua dignità”, ma che purtroppo sa che nel coro di chi celebrerà oggi il mito di un ciclista unico si mescoleranno anche tanti voci che hanno concorso a distruggerlo.


(Fonte:firstonline.info)